La natura umana
Titolo: La Natura Umana e la sfida Ambientale
Autore: Mario Porro
Data: 2017
Nel mito del Protagora, Platone narra che Zeus affida al titano Prometeo (alla lettera, il previdente, colui che pensa prima) il compito di distribuire alle diverse specie animali le facoltà utili alla sopravvivenza. Della distribuzione s’incarica però il fratello Epimeteo (l’imprevidente), il quale ha cura di assegnare ad ogni specie le facoltà che ne impediscano l’estinzione. Alle specie di piccole dimensioni assegna “una fuga alata o un’abitazione sotterranea”, altre le rende abili nella corsa, le dota di artigli o di prole numerosa, altre ancora le fa crescere in grandezza o ne rende acuti i sensi. Epimeteo esaurisce però le facoltà prima di assegnarle all’uomo che si ritrova nudo, scalzo e inerme. Prometeo si trova allora costretto a rubare il fuoco ad Efesto e la perizia tecnica ad Atena per farne dono all’uomo, un dono che pagherà con l’eterna condanna degli dei.
Il mito predispone la concezione antropologica a cui sarà largamente fedele la cultura dell’Occidente: fin dal principio, l’uomo è nettamente distinto dalle specie animali in quanto non dispone di un patrimonio naturale, oggi diremmo genetico, con cui affrontare le avversità dell’ambiente. Per natura è un animale carente, privo di qualità biologiche innate: solo sviluppando le tecniche potrà garantirsi la sopravvivenza e dare così avvio all’avventura della civiltà. L’identità dell’uomo si definisce in contrapposizione alla natura; gli animali possono anche disporre di un’anima, intesa come principio di vita, ma solo l’uomo dispone di un’anima razionale che gli consente di sfuggire al destino dei viventi, alla loro esistenza finita, per accedere all’immortalità promessa nell’Aldilà. Il platonismo greco si salda con la cultura di matrice ebraico-cristiana: solo Adamo è plasmato ad immagine di Dio, a lui spetta il compito di dominare la terra, dando un nome alle piante ed agli animali che abitano l’Eden. È questo il principio su cui si fonda l’umanesimo del Quattrocento, che trova la sua massima enunciazione nell’Orazione sulla dignità dell’uomo di Pico della Mirandola (1492). Dio ricorda ad Adamo che non gli ha dato una natura definita, una collocazione predeterminata nell’universo; spetta all’uomo decidere cosa fare di se stesso, “Tu potrai degenerare nelle cose inferiori, che sono i bruti; tu potrai rigenerarti, secondo il tuo volere, nelle cose superiori che sono divine”. L’uomo, corda sospesa fra la bestia e l’angelo, è faber fortunae suae, artefice del proprio destino, in grado di costruire se stesso e determinare grazie al libero arbitrio la propria sorte, terrena e celeste.
La tradizione umanistica ha avuto il merito di rivendicare la forza costruttiva e progressiva della specie umana, ma ha finito per isolarla dal resto della natura. Anche l’antropologia filosofica del Novecento ha ribadito lo scarto “ontologico” fra l’umano e l’animale: quest’ultimo vive, mentre l’uomo esiste, nel senso che, come attesterebbe l’etimologia – ex-sistere –, l’uomo prende distanza, si stacca dalla realtà immediata per auto-trascendersi, per andare oltre se stesso. Di qui la centralità della dimensione temporale come caratteristica della condizione umana in Essere e tempo (1927) di Martin Heidegger: l’uomo si getta in avanti, si protende verso il futuro, nel pro-getto con cui mentalmente anticipa l’intervento per modificare il mondo in base alle proprie esigenze. L’animale, in virtù dei requisiti di specie, compie azioni automatiche, istintive, che gli consentono di adattarsi all’ambiente (Umwelt), ma rimane povero di mondo (Welt). L’uomo, al contrario, privo da un punto di vista organico di armi naturali e di sensi specializzati, è costretto ad affidarsi alla tecnica per colmare le sue mancanze e predisporre il mondo della sua esistenza. È questa la convinzione ribadita dal filosofo tedesco Arnold Gehlen, sulla scia del pensiero heideggeriano, negli anni Trenta (il suo libro più noto, L’uomo, esce nel 1940): proprio in virtù del suo essere manchevole, esposto ad un ambiente che non gli si adatta, l’uomo possiede «libertà dalla situazione», nel senso che nel presente vede l’annuncio delle sue possibili trasformazioni; è capace di «esonero», cioè di assumere distanza nei confronti della realtà data, di rompere l’incantesimo dell’immediatezza per anticipare il futuro, elaborando mezzi per scopi lontani.
Nel pensiero filosofico del Novecento, nell’esistenzialismo come nel neoidealismo e nella sua variante storicista di impianto marxista, si è dato per scontato che la natura dell’uomo fosse la cultura. Non sorprende che ne Il paradigma perduto (1972) il sociologo e filosofo francese Edgar Morin (nato nel 1921) ponesse l’esigenza di “naturalizzare” l’umano, di iscriverlo nella dimensione biologica, senza farne un ente separato, spirituale, come voleva la concezione culturalista. Morin era particolarmente critico nei confronti dell’approccio diffuso nell’ambito delle scienze umane (ad esempio nell’antropologia culturale di Lévi-Strauss) dove l’identità umana era definita solo in termini di cultura, materiale o simbolica. Di qui la sua richiesta di sfuggire alla visione peninsulare che aveva relegato l’uomo ai margini della natura; Darwin non aveva forse insegnato che la discendenza della nostra specie non risaliva ad Adamo ma ad una ramificazione delle scimmie antropomorfe? Non si trattava di ridurre l’uomo ad una scimmia nuda (secondo la formula dell’etologo Desmond Morris), di schiacciare il sociale sul biologico, ma di riscoprire le radici da cui è sorta e si è poi sviluppata la comunità umana: il paradigma perduto di cui Morin andava in cerca era appunto la natura umana.
Per comprendere l’identità complessa dell’uomo, senza pensarlo abitante esclusivo del regno sopra-naturale della cultura o dello Spirito, è essenziale integrare le acquisizioni delle diverse scienze, naturali ed umane, dalla genetica alla psicologia. E’ a partire dal radicamento cosmico e biologico dell’umano che muove la riflessione di Morin; dalla parentela con l’animalità ci distacca la coscienza della morte, ma il nostro stesso cervello eredita quello dei rettili e dei mammiferi, prima che si sviluppi la neo-corteccia, sede delle attitudini logiche. Il neuro-scienziato Paul Mac Lean (1913-2007) ha sostenuto l’idea di un cervello umano composto da tre strati: lo strato rettiliano è sede dei bisogni e degli istinti, il secondo strato, nel sistema limbico, presiede la dimensione emozionale (aggressiva e materna, fobica e ludica). L’intelligenza umana resta in relazione dialogica, conflittuale e cooperativa, con l’affettività e le pulsioni, ricevute in eredità nell’avventura dell’evoluzione. Qui si delinea il punto di connessione fra animalità ed umanità, fra biologico e culturale, e si comprende anche come le funzioni cognitive si siano costruite all’interno della dimensione emotiva: “esiste una passione fondante la ragione”, ha scritto il neuro-scienziato Antonio Damasio, in polemica contro l’errore di Cartesio, cioè la netta separazione fra mente e corpo, fra intelligenza e sentimento …