Ci siamo lasciati nell’ottobre 2012 con Massimo Calvi (caporedattore dell’Avvenire) che ci ha illustrato le caratteristiche della recessione che attanaglia l’Occidente dal 1999.
Una crisi economico-finanziaria scoppiata negli USA con la bolla speculativa dei mutui subprime, passata per la bancarotta della Lehman Brothers (2008) e al default dell’Islanda fino alla crisi greca. Gli Stati Uniti e l’Europa hanno speso oltre 5000 miliardi di euro in aiuti pubblici e varie istituzioni finanziarie. La cifra è impressionante se si confronta con il PIL dell’intera Africa che non raggiunge i 2500 miliardi. Nelle sole 20 nazioni più ricche del mondo le turbolenze generate dalla crisi finanziaria del 2007-2008 sono costate qualcosa come 40 milioni di posti di lavoro.
Di chi è la colpa? Della globalizzazione, dell’industria finanziaria e della speculazione internazionale, dall’assenza di controlli su di essa e dalla mediocrità della classe politica, in una parola dell’avidità del capitalismo fuori controllo.
In Italia, dopo il rischio default del “92, il governo abbatte il debito con le privatizzazioni. Poi Prodi, con manovra lacrime e sangue, fa entrare l’Italia nell’euro. Ma l’economia italiana è in rallentamento e dal sesto posto mondiale per PIL è sceso all’ottavo e ora rischia di andare oltre il decimo.
Francesco Riccardi, caporedattore dell’Avvenire, focalizzando la relazione sul tema del lavoro, descrive una situazione occidentale da tempo in grave difficoltà e che non si è affatto risolta.
Il tasso di occupazione negli Usa rimane di circa il 59% rispetto al 63% pre crisi. In questo periodo tutte le classi sociali hanno perso importanti percentuali di ricchezza reale e solo i piu’ ricchi sono diventati ancora più ricchi.
In Italia dal 2008 al 2014 si sono persi oltre 1 milione di posti di lavoro (gli occupati sono passati da 23,5 a 22,3 milioni).
La percentuale di disoccupazione è raddoppiata (dal 6% di fine 2007 al 13% del 2014). I giovani tra 15-24 anni sono disoccupati in percentuale del 42,7% (21,7% nel 1977). Ci sono 2,2 milioni di NEET (giovani che non studiano, non lavorano e sono in formazione).
Il Jobs act, fortemente voluto dal governo Renzi introduce un nuovo e unico contratto a tempo indeterminato, da una parte abolendo l’articolo 18 (che impediva il licenziamento se non per giusta causa) ma in teoria anche i vari contratti a tempo determinato come i Co.Co.Co. In sostanza d’ora in avanti i datori di lavoro possono e devono assumere a tempo indeterminato ma con la possibilità di licenziare, senza che per il lavoratore abbia il diritto al reintegro ma solo a un rimborso economico, tanto più elevato quanti più sono i gli anni di lavoro (contratto a tutele crescenti).
Si tratta di un cambio epocale della normativa sul lavoro sul quale il giudizio politico è ovviamente molto differente a seconda delle parti politiche interpellate. I risultati reali a breve per ora sono di modesto aumento dei contratti a tempo indeterminato. Basterà a risolvere il problema dei disoccupati? Da sola ovviamente no!
I problemi del lavoro in Italia si intersecano con il problema economico e di come la classe imprenditoriale sarà in grado di affrontrare la recessione occidentale nell’era globale. Saranno necessari ulteriori grandi cambiamenti.
Studi autorevoli dicono che nel mondo occidentale si assisterà a una polarizzazione del lavoro. Rimarranno cioè solo lavori di altissima qualifica e paradossalmente i lavori di minor qualità (ad esempio i lavori di pulizia). Si ridurranno fortemente i lavori intermedi (impiegati e professionisti a media scolarizzazione), sostituiti dall’informatica e dalle macchine.
I giovani in studio oggi per un determinati lavori per più del 60% affronteranno un lavoro diverso e sconosciuto.
In un mondo così in evoluzione l’investimento maggiore sembra essere quello sull’istruzione e sulla formazione, sempre più di quantità e qualità. E l’Italia in questo campo è in forte ritardo.
Ma è anche necessario un cambiamento di mentalità da parte della classe imprenditoriale. Le industrie italiane si basano ancora troppo su rapporto di fiducia tra i vari attori: consumatore, imprenditore, fornitori, dipendenti e investitori. Questo non funziona in un mercato globale che per ovvie ragioni è anonimo. Bisogna inoltre anche aprirsi alle risorse globali (manager stranieri e soldi esteri) invece di lasciar andare i nostri talenti all’estero.