Per comprendere se stessi bisogna porsi a confronto con l’Altro e questo vale anche per le civiltà: solo così possiamo cogliere i presupposti, le rive in cui scorrono i nostri pensieri. Questo è il lavoro che compie da trent’anni il filosofo francese François Jullien: osservare le nostre radici culturali, greco-cristiane, dall’Oriente della Cina, una civiltà formatasi in totale autonomia rispetto all’Occidente. un modo per conoscere, attraverso l’Altro, anche noi stessi.
Il secondo incontro del ciclo “Storia antica e eredità culturale”, promosso dalla nostra associazione, ha visto come relatore Mario Porro, docente di Storia e Filosofia al liceo Enrico Fermi di Cantù. Il tema della serata era incentrato sul raffronto tra la visione del mondo occidentale e quella di una cultura da noi distante come quella cinese.
Il professore ha attinto agli studi del filosofo e sinologo francese Francois Jullien, di cui ha tradotto diverse opere in italiano. L’intellettuale transalpino è promotore di un passaggio verso la Cina, non soltanto per mera esplorazione e curiosità, ma soprattutto perché confrontandoci con l’altro da noi siamo in grado di pervenire alla conoscenza di noi stessi. In tale direzione egli parla appunto di “un uso filosofico della Cina”: il confronto con questa realtà è estremamente utile per la nostra cultura, in quanto la tradizione cinese si è sviluppata in modo indipendente, raggiungendo un livello pari, se non migliore sotto alcuni aspetti, al nostro.
Nell’opera “Processo o creazione” la trattazione di Jullien si concentra sul problema della comunicazione. I diversi sistemi linguistici hanno condotto a differenti modi di intendere il mondo. Alla fine del XVI secolo i missionari gesuiti, recatisi in Cina, cercarono di entrare nell’ambiente culturale locale per poter diffondere il loro credo ed evangelizzare il Paese. Tale intento fu però ostacolato da molti fattori, il principale dei quali fu sicuramente quello del linguaggio. Nella scrittura in ideogrammi molti concetti, per noi fondamentali, erano assenti. Jullien sottolinea soprattutto la mancanza del concetto di creazione, in quanto la tradizione cinese non ha mai sviluppato l’idea di un Dio, di un’entità volitiva e creatrice: di conseguenza non hanno mai avuto bisogno né necessità di parlarne.
Il problema dell’origine non si pone: il mondo è un processo, un susseguirsi di fasi – come le stagioni – basato sull’alternanza e sulla ciclicità. I due momenti fondamentali sono quelli dello yin e dello yang, opposti l’uno all’altro ma indissolubili, in quanto l’uno prepara all’altro. Per questo il processo non ha bisogno di nient’altro: esso basta a se stesso. Vi è la negazione totale di qualsiasi soggetto esterno dotato di volontà, di colui che noi chiamiamo Dio. Nello stesso tempo non si ricerca una causa originaria, né tantomeno un fine a cui tendere. E’ questo uno degli scarti principali delle due tradizioni: in Occidente esiste la categoria del soggetto agente, il quale compie un’azione seguendo l’inclinazione della propria volontà. In Cina ciò non viene contemplato: l’atto energico non viene preso in considerazione né valorizzato.
In un’altra sua opera, “Trattato dell’efficacia”, Jullien confronta i due differenti sistemi all’interno dell’ambito militare. Nella visione occidentale, espressa dal generale e teorico prussiano Carl von Clausewitz, la guerra va condotta secondo un piano stabilito: occorrono strategia e doti progettuali per pervenire alla vittoria. Ciò rientra nella nostra idea di efficacia, ovvero l’abilità, avendo un piano, di attuarlo attraverso l’intervento nella realtà fenomenica, trasformandola a nostro piacimento per raggiungere il successo. Nell’ideologia cinese, invece, vige sempre la logica del processo: il bravo generale sfrutta il potenziale della situazione, è colui che fa in modo che il processo spontaneamente conduca alla sconfitta del nemico. Egli non si prodiga in gesta eroiche. Anzi, dà l’impressione di non agire: il migliore è colui che vince la guerra senza combatterla. Tale concezione trova riscontro nella tenace tradizione agricola cinese, nella quale il saggio contadino non forza gli elementi naturali, ma li lascia evolvere seguendo i tempi e i modi propizi.
In generale, la figura del saggio è fondamentale: egli è in grado di sposare spontaneamente la processualità in corso, senza imposizioni o limitazioni.